Etnografie del contemporaneo: il post-agricolo e l’antropologia

Etnografie del contemporaneo: il post-agricolo e l’antropologia

La settimana scorsa ho preso parte al seminario ‘Il post-agricolo e l’antropologia’, organizzato da Roberto Beneduce e Barbara Sorgoni (UniTo) nell’ambito del ciclo d’incontri di Metodologlia della Ricerca Etnografica del Dottorato in Scienze Psicologiche, Antropologiche e dell’Educazione. Il relatore, Vincenzo Padiglione (Università La Sapienza di Roma), ha presentato il numero speciale della rivista Antropologia Museale che dava il titolo al seminario. I discussants erano Adriano Favole e Roberta Zanini, entrambi dell’Università di Torino. Davvero numerosi i temi d’interesse per il progetto ALTFOODCRISIS.

Nel suo intervento introduttivo, Favole ha parlato del recupero immaginario del rurale nelle società contemporanee, testimoniato dall’utilizzo museale di oggetti prima destinati alle discariche, o dall’uso di oggetti della ruralità come forma di desiderio del consumo da parte dei ristoranti. L’epoca post-agricola è quindi, per Favole, la nuova immaginazione del settore primario, fatta da un coacervo di esperienze come il biologico, l’omeodinamico, gli orti urbani, ma anche dai beni confiscati alla mafia, tutti luoghi in cui si sperimentano nuove forme di produzione come forme di cittadinanza ambientale. Non vecchi modi di produrre, ma attività che (ri)creano relazioni sociali. Favole si è chiesto se si possa parlare di smart fields, come si parla di smart cities. Importanti novità esistono anche negli ambiti della distribuzione e del consumo: GAS, AFNs, Genuino Clandestino. Ciò che accomuna tutte queste esperienze è il fatto di mescolare categorie in passato ritenute rigide: locale e globale, tradizionale e moderno, città e campagna, reale e virtuale. Da qui il senso del prefisso ‘post’ come segno dell’irriducibile pluralismo che caratterizza la postmodernità. Concludendo, Favole si è interrogato sul ruolo che gli antropologi possono avere nello studio di questi fenomeni, suggerendo di leggerli come parte della sharing economy.

Padiglione ha iniziato anch’egli interrogandosi sul ruolo degli antropologi, in particolar modo rispetto alla loro capacità di comunicare con un pubblico più ampio. La scrittura antropologica è molto spesso densa, ma non necessariamente efficace. Per tentare di porre rimedio a questo problema, il numero speciale di Antropologia Museale sul post-agricolo consiste in un format diverso dal solito: una serie di voci brevi, cui hanno lavorato 62 antropologi. Il numero vuole quindi essere un’occasione per far conoscere la disciplina fuori dai soliti steccati, ma anche per mettere in comunicazione studiosi che alle volte non conoscono i reciproci lavori a causa della litigiosità delle baronie accademiche.

Entrando nel merito, Padiglione ha voluto subito chiarire come il prefisso ‘post’ non vuole dare l’idea di una fase successiva. Non è quindi riconducibile ad un paradigma evoluzionista. Ma serve a indicare un processo di elaborazione concettuale che rimette in causa le categorie solitamente adoperate per interpretare la produzione, lo scambio e il consumo di cibo. A sua volta, l’aggettivo ‘agricolo’ è per Padiglione da preferire a quello ‘rurale’, che tende a spostare l’attenzione sulle questioni del paesaggio, mentre l’enfasi vuole essere su fenomeni che partono dalla produzione. Di qui la centralità della questione agraria. Padiglione ha ricordato come, nel dopoguerra, la questione agraria sia stata centrale nel dibattito culturale italiano. Il lavoro di Ernesto de Martino, uno dei padri fondatori dell’antropologia nostrana, s’inserisce in questo filone. Forse, questa la suggestione di Padiglione, il filone andrebbe riscoperto, sebbene oggi la questione agraria si ponga in modo molto diverso. (A tal proposito, è interessante notare come la questione agraria sia uno dei temi chiave di due tra le riviste antropologiche più prestigiose al mondo: Journal of Peasant Studies, primo impact factor al mondo secondo Thomson Reuters, e Journal of Agrarian Change, ottavo impact factor secondo Scimago.)

Padiglione ha continuato spiegando l’interesse di una rivista come Antropologia Museale per i temi dell’agricoltura, dovuta al fatto che quasi tutti i musei etnografici d’Italia sono musei dell’agricoltura. Ma la modernità ha ormai cancellato le tracce di quei mondi; in questi musei non troviamo più la contemporaneità. Questo è contraddittorio per una disciplina come l’antropologia, perchè equivale a cancellare il senso dell’approccio etnografico. Dov’è il presente delle campagne? E’ questo presente che va affrontato dagli antropologi, aggiornando e rinnovando i musei. Padiglione ha anche ricordato che molti di questi musei nacquero negli anni ‘70 come risultato di una tensione politica (molti furono fondati da cooperative) che non dimenticava il presente. All’epoca, questi luoghi furono visti come una possibilità per il futuro. Uno dei primi musei del mondo agricolo, ad esempio, fu creato da Gino Girolomoni, il fondatore di Alce Nero e uno dei padri del biologico in Italia. Altre esperienze nacquero dall’occupazione delle terre e dal radicalismo di quegli anni.

Padiglione ha discusso a lungo della nuova vitalità del mondo agricolo, che costruisce appartenenze identitarie ma anche forti conflitti. Il termine post-agricolo serve da passepartout per comprendere le connessioni tra agricolo e industriale, locale e globale, digitale e reale. Siamo di fronte ad un grande groviglio, o ad una situazione porosa (qui Padiglione ha citato Walter Benjamin su Napoli). Solo uno sguardo intimo e straniante può cogliere le differenze e la sovrapposizione di strati. Post-agricolo vuol dire un agricolo più dinamico, con un forte investimento economico nel settore. Ma anche più variegato, con la compresenza di tante realtà diverse: il contadino, l’imprenditore, l’ortista fai-da-te. È una situazione più relativista che in passato, e non possiamo dire quale sarà il futuro. Nessuno può sapere quale forma prevarrà domani. La multifunzionalità è sicuramente molto presente. Post-agricolo vuol dire anche più inclusivo, con lo sviluppo dell’agricoltura sociale che mira a includere soggetti deboli. Più connesso, con l’isolamento del mondo rurale che sta finalmente scomparendo. Ci sono le reti digitali, ma anche i gruppi di acquisto solidale, che creano occasioni di socialità quando consumatori e produttori s’incontrano. Post-agricolo vuole anche dire più paradossale, con il recupero di saperi antichi a lungo considerati obsoleti.

Post-agricolo vuol dire più profetico e più conflittuale. Qui Padiglione ha richiamato ancora Benjamin, per sostenere che la campagna è un “luogo profetico”, che c’impegna alla trasformazione. C’è una dimensione messianica nella campagna, di frontiera, di vuoto, che può consentirci di de-saturare il presente (qui Padiglione ha citato il concetto Lacaniano di déprise) per immaginare il futuro in modo diverso. La gente parla della terra come Terra Madre, che ci dà da mangiare, e questo è fondamentale per il nostro futuro. Ma il mondo agricolo è anche un ambito fortemente conflittuale, un luogo lacerato da guerre economiche e scientifiche, che va ricomposto. L’atto di mangiare è un atto politico, una situazione da cui originano idee come la “gastropolitica” di Appadurai, o il concetto di foodscape, che pone l’attenzione su come la filiera del cibo sia nascosta. Questo è vero sia dal punto di vista materiale che simbolico. Esistono tutta una serie di significati nascosti, soprattutto nei mega-eventi come Expo Milano 2015, ma anche come Terra Madre di Slow Food. Nel secondo caso, il pericolo è quello di una estetizzazione ed essenzializzazione del cibo, frutto di una logica urbana che vuole cancellare tutta una serie di elementi che non le interessano. Come antropologi, questo il suggerimento finale di Padiglione, dovremmo essere in grado di decostruire questa ed altre logiche fuorvianti.

Dopo Padiglione è intervenuta Roberta Zanini, secondo discussant della giornata. Zanini ha preso spunto dall’idea di campagna come luogo vuoto, che ritorna in almeno tre dei contributi presenti nello special issue, quello di Pier Paolo Viazzo (anch’egli presente al seminario) sui nuovi abitanti della montagna piemontese, quello di Vito Teti sull’idea di paese, e quello di Bernardino Palumbo sui luoghi vuoti in Sicilia. Zanini ha quindi fatto notare che mentre nel caso discusso da Palumbo, ad esempio, gli spazi vuoti sono in realtà pieni, ma di cose che spesso non hanno senso agli occhi di chi le guarda (ad esempio, gli effetti indesiderati dello sviluppo, le forme di illegalità, ecc.), nelle alpi esistono davvero dei luoghi vuoti, o meglio svuotati dal traumatico passaggio alla modernità, che ha reso questi luoghi paradossalmente più chiusi che in passato, in una sorta di profezia auto-avverantesi. E’ questo vuoto che ha creato il contesto per accogliere i nuovi abitanti della montagna, fenomeno che Zanini ha studiato in maniera approfondita (si veda il suo recente libro sull’argomento). Oggi esistono quindi i montanari per nascita, quelli per scelta, ma anche quelli per forza, come i richiedenti asilo e i rifugiati che sono spesso ospitati in comunità alpine. Anche questo, per Zanini, è un problema (di cittadinanza) che riguarda il mondo post-agricolo.

Tra gli interventi d’interesse del dibattito quello di Viazzo, il quale è ritornato sui dilemmi che l’antropologia si pone circa il suo ruolo, facendo notare che la disciplina può offrire, tramite l’approccio etnografico, un chiaro contributo alla comprensione dei fenomeni sociali, che consente di cogliere aspetti (quali i conflitti, i confini) che altri approcci non sono in grado di vedere (ad esempio quello territorialista). Un esempio di queste possibilità è stato il recente progetto Territori, memorie, frontiere: etnografie italo-svizzere per la valorizzazione del patrimonio immateriale.

NOTA BIBLIOGRAFICA

Esiste ormai un’ampia letteratura antropologica sui temi del cosiddetto ‘post-agricolo’. Per iniziare, si possono vedere i seguenti testi recenti:

The flavor of moral outrage: the Panama Papers and Iceland

The flavor of moral outrage: the Panama Papers and Iceland

The recent resignation of Iceland’s prime minister Sigmundur Davíð Gunnlaugsson, following the publication of the Panama Papers (a cache of 11.5m files from the database of Mossack Fonseca, the world’s fourth biggest offshore law firm), offers an interesting example of how food can become a means for expressing moral sensibilities about austerity. The leaked documents show that in 2007 Gunnlaugsson and his wife bought a British Virgin Islands-based offshore company called Wintris to invest substantial sums of money. Though there is no evidence thus far of tax avoidance, evasion, or of any dishonest financial gain, the public reaction in Iceland, a country that saw drastic impoverishment after 2008, has been one of outrage.

In light of these events, ice-cream maker Jonas Haukdal, a citizen of Reykjavík, decided to create a new flavor of ice-cream, a blend of lemon sorbet and vanilla dusted with liquorice, calling it Wintris, the name of the offshore company in question. Haukdal described the new flavor on Facebook as “sour, with a strong dose of arrogance and laced with lousy excuses”, in obvious reference to the prime minister’s conduct.

The use of food and flavor as metaphors for feelings about the wider social world has been well documented in the anthropological literature. Bitterness is a very good example of this process. In his study of the Weyéwa of highland Sumba, for example, Kuipers (1984) explores the metaphorical use of taste words to talk about certain objects: a girl, a rice field, or a sacrificial animal can all be described as “bitter” if they are somehow intractable. Another excellent example is Farquhar’s (2002) ethnography of changing subjectivities in China, where she describes how people’s relations to others and to the Communist Party are often metaphorically talked about as “eating bitterness”. Painful memories or injustices are referred to as the amount of bitterness that “they or their family members have swallowed in the past”. Here flavor and taste move between the personal and the political, as they do in the ice-cream example mentioned above. Icelanders are probably wondering how much more bitterness they will have to swallow after the revelations of the Panama Papers.

CITED WORKS

Mangiare a scuola: strategie alternative in tempi di austerity

Mangiare a scuola: strategie alternative in tempi di austerity

La settimana scorsa ho preso parte al convegno ‘Mangiare a scuola: le politiche alimentari per una qualità accessibile e diffusa‘, che si è svolto presso l’Auditorium della Città metropolitana di Torino. Il convegno era parte del processo ‘Nutrire Torino metropolitana,’ lanciato dalla Città metropolitana di Torino nel 2015 per la costruzione di un’Agenda del cibo e di un Food policy council. Scopo del convegno era di presentare lo stato dell’arte delle buone pratiche alimentari nelle scuole primarie dei 256 Comuni della Città metropolitana che ospitano mense scolastiche, e far diventare l’educazione alimentare cardine strutturale del percorso didattico, vera e propria policy.

Numerosi gli interventi d’interesse. In merito all’aspetto della salute pubblica, ad esempio, Marcello Caputo (Settore Prevenzione Regione Piemonte) ha parlato dei fattori di rischio causati dall’alimentazione moderna, quali sale, zucchero e grassi. Trattando il problema dell’obesità, ha notato come l’Italia sia ai primi posti in Europa per quella infantile. Importante la sua considerazione sull’obesità non (solo) come problema di scelte personali, ma (anche) di contesti obesogenici, considerazione ripetuta in seguito da Antonio Saitta (Assessore Sanità Regione Piemonte), il quale ha notato come nel nostro paese le regioni “più obese” sono anche quelle più povere. Caputo ha poi discusso delle attività degli enti locali e regionali per incrementare il consumo di frutta e verdura nelle mense scolastiche, e ridurre il sale. A suo avviso, questi piccoli accordi a livello locale possono avere un notevole impatto positivo. Resta però il problema dei criteri dei capitolati d’appalto, che vanno modificati verso il bene comune, una considerazione ripetuta a più riprese da tutti gli interventi della giornata.

Il problema dei capitolati è stato affrontato in particolar modo da Alessia Toldo (Università di Torino), che ha presentato parte dei risultati di una ricerca mirata a comprendere se gli appalti per le mense scolastiche potessero diventare veicoli per la ri-territorializzazione del cibo. L’importanza di una prospettiva territoriale è stata messa in luce da Egidio Dansero (Università di Torino), il quale ha spiegato la necessità di una strategia co-prodotta dai soggetti presenti sul territorio, che devono connettersi tra di loro e con le risorse, anch’esse del territorio (il tema è approfondito in questo libro). Gli assi di valutazione territorialista dei capitolati nella ricerca svolta da Toldo erano quattro: sostenibilità ambientale, giustizia sociale, ri-localizzazione, e stili di vita. Per quanto riguarda i risultati, nelle mense scolastiche la sostenibilità è spesso riferita all’uso di stoviglie riutilizzabili, e all’offerta di cibo biologico (notevole il caso del comune di Grugliasco). La giustizia sociale è interpretata tramite l’offerta di cibi del commercio equosolidale (fair trade) e di menu etnico-religiosi. La ri-localizzazione risulta bassa a livello comunale, ma diventa più alta se con ‘locale’ s’intende il contesto nazionale. Il criterio dello stile di vita risulta il più seguito, grazie all’educazione alimentare, praticata da molte scuole. Toldo ha poi sottolineato come spesso i tecnici dei comuni lamentino la mancanza di competenze per modificare i capitolati in direzione della sostenibilità ambientale e sociale, fatto che richiederebbe la diffusione d’informazioni sulle buone pratiche a tutti i livelli, ad esempio tramite un osservatorio apposito. In tal senso, Toldo ha citato il caso del comune inglese di Bristol, esempio ripreso anche da Elena Di Bella (Servizio Sviluppo Montano e Rurale e Politiche Sociali, Città metropolitana di Torino).

Qualsiasi prospettiva territorialista deve tenere in considerazione come ‘territorio’ e ‘locale’ non si equivalgono, dato che i territori sono oggi attraversati da potenti forze economiche, politiche e culturali non-locali, ma nazionali, continentali e globali. Anche questo aspetto è emerso nel corso della mattina.

Mariangela Depiano (Dirigente Servizi Educativi Città di Torino), ad esempio, ha fatto notare come un grande impedimento alla riforma dei capitolati è costituito da normative europee che impongono di non privilegiare gli attori locali, per non ledere il principio della libera concorrenza. Depiano ha anche citato dei dati che mostrano come a Torino negli ultimi anni i pasti venduti nelle mense siano diminuiti, spiegando il trend con l’effetto della crisi economica, che spingerebbe nuclei famigliari che hanno perso il lavoro a far mangiare i figli a casa anziché alla mensa scolastica. Il problema della disoccupazione, soprattutto femminile, e del suo impatto sui consumi famigliari, è stato sollevato anche da Umberto D’Ottavio (Commissione Istruzione della Camera dei Deputati). Maria Grazia Pellerino (Assessora alle Politiche Educative della Città di Torino) ha citato dati sul’impatto della crisi sul potere d’acquisto delle famiglie, e sulla riduzione del budget alimentare che esso comporta. Ma la crisi ha un impatto notevole anche attraverso le politiche fiscali di austerità, che riducono i trasferimenti di fondi pubblici dallo stato centrale alle regioni. Come ha ricordato Gemma Amprino (Consigliera delegata all’Ambiente, Sviluppo Montano e Agricoltura, Città metropolitana di Torino) nuove risorse sarebbero necesssarie per estendere il sistema delle mense anche alle scuole secondarie superiori, in modo da incentivare un’alimentazione sana tra gli adolescenti.

Un altro intervento di grande interesse è stato quello di Fabrizio Galliati (Presidente provinciale Coldiretti Torino), che ha ricordato come ancora oggi l’agricoltura sia troppo spesso ‘nascosta’ quando si parla di cibo, nonostante l’argomento sia ormai alla moda (programmi TV, festival dello street food, ecc.). Il cibo, dopo tutto, è il prodotto dell’agricoltura. Guardando al quadro globale, Galliati ha ricordato che lo scenario futuro sarà quello di un aumento esponenziale della popolazione mondiale, con grandi problematiche di approvvigionamento. Questo scenario pone considerevoli domande di politica alimentare, e politica alimentare vuol dire anche politica dell’agricoltura. Se da un lato alcuni invocano un nuovo produttivismo, dall’altro i confini del pianeta sono sempre più sotto pressione. Per gli agricoltori, il problema maggiore è la complessità del sistema, e per Galliati complesso vuol dire costoso. Quali sono le esigenze di questo sistema? Grandi volumi, grande varietà, omogeneità del prodotto, monodosi e prodotti pronti all’uso. Con questi criteri, la via per le aziende agricole è stretta. La fetta di valore destinata agli agricoltori viene sempre più compressa, come dimostrano ad esempio le recenti proteste dei produttori del latte in Piemonte. Da qui la richiesta di Galliati di superare la logica del massimo ribasso nei capitolati d’appalto, di aiutare le forme di agricoltura più sostenibili, e di calcolare i costi nella loro interezza, inclusi quelli ambientali e sociali. Chiudendo il suo intervento, Galliati ha ricordato le parole del famoso giornalista americano Michael Pollan: “Il cibo a basso prezzo è un’illusione, non esiste. Il vero costo del cibo alla fine viene pagato da qualche parte. E se non lo paghiamo alla cassa, lo paga l’ambiente, e la nostra salute.

Diversi interventi si sono soffermati sul problema del cibo come merce. Ad esempio, quello di Gian Carlo Caselli (Osservatorio sulla criminalità del settore agroalimentare), che ha fatto notare come la corsa al ribasso dei prezzi sia uno dei fattori chiave nel fenomeno delle agro-mafie. Caselli ha poi ricordato che l’invito a considerare il cibo come bene comune e non come merce sia presente anche nella recente enciclica di Papa Francesco I, Laudato si’, adesso edita non a caso con una prefazione di Carlo Petrini, fondatore di Slow Food. Quest’anno, il consueto evento torinese di Terra Madre sarà interamente dedicato ai temi dell’enciclica. Caselli ha chiuso il suo intervento auspicando di tenere alta la guardia contro i rischi alimentari vecchi e nuovi, come ad esempio quello della cosiddetta ‘mucca pazza,’ che proprio in questi giorni ha fatto registrare un nuovo caso.

Fondamentale rispetto al problema del cibo merce/cibo bene comune è la costruzione sociale e culturale dello stesso. Diversi relatori hanno messo in luce questo aspetto. Pellerino ha parlato della necessità di una “mobilitazione delle coscienze” verso i temi del cibo. Andrea Olivero (Vice ministro delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali) ha esortato a riflettere sull’opportunità di fare una spesa di qualità, come avveniva in passato, quando per il cibo si era disposti a spendere molto più che adesso. Sulla stessa linea le considerazioni di Amprino, che ha ricordato come nelle società contadine le risorse fossero una cosa quasi sacra, assolutamente da non sprecare. Invece oggi per noi il cibo ha lo stesso valore delle altre merci, se non un valore molto più basso (per esempio rispetto ai gadget tecnologici o agli abbigliamenti). A suo avviso, l’atteggiamento verso il cibo-merce può essere cambiato attraverso l’educazione.

Per concludere, sul tema dell’educazione e della conoscenza Dansero ha messo in luce l’importante contributo che può dare l’università. La sfida è quella di affrontare processi più grandi, non solo singoli progetti individuali. Bisogna andare verso la governance alimentare. Governance non vuol dire governo, poichè include attori della società civile e attori privati. Troppo spesso anche la (grande) governance è fatta dai governi con le multinazionali. La sfida è quindi di farla localmente e in una direzione diversa, quella del cibo buono, pulito e giusto di cui parla Petrini. Bisogna mettere a fuoco il sistema alimentare locale, dalla produzione al consumo ai rifiuti. Lo scopo è capire come intervenire con politiche a tutte le scale. Elemento di base è la conoscenza, quindi il ruolo dell’università. Ma l’università non è l’unica depositaria del sapere; questo è diffuso tra tanti attori: gli enti pubblici, gli attori privati, la società civile. Dobbiamo quindi co-produrre conoscenza, anch’essa territorializzata. Da qui il progetto dell’Atlante del cibo. Come i vecchi atlanti erano una catalogazione sistematica delle terre, così l’Atlante del cibo vuole essere una catalogazione del panorama alimentare torinese e piemontese.